Oggi non scrivo io, ma traduco un articolo del poeta iraniano Kaveh Akbar, uscito stamattina, 21 giugno 2025, su El Pais. In queste parole non c’è solo la dignità, il dolore e la sensibilità di un membro di un grande popolo oppresso e sfruttato dai propri e dagli altri per secoli, c’è anche un analisi lucida di quanto sta accadendo sotto gli occhi, ciechi, di tutti.
Prima di leggere le sue parole, però, inserisco qui il link a un’intervista di Giovanni Minoli di molti anni fa a Netanyahu: già allora la sua vita era segnata dalla lotta al terrorismo internazionale, di cui fornisce una definizione francamente alquanto discutibile. Minoli verso la fine lo incalza con domande più precise, che presupporrebbero una riflessione più obiettiva e ampia sui metodi che lui propone, già allora, nel saggio “Terrorismo: come l’Occidente può sconfiggerlo”. E lui, già allora, non è in grado di farla, quella riflessione più articolata, ripete meccanicamente quanto ha imparato a memoria per avere sempre la risposta pronta. Credo che sia illuminante sul tipo di fanatismo lucido, spietato che oggi incarna ancora di più.
L’intervista di Minoli la trovate su Raiplay (se non visualizzate il link, cercate Faccia a faccia, che è il programma in questione, e poi la sezione “Le grandi interviste”.
Thomas Mann diceva: la tolleranza è un crimine, quando ciò che si tollera è la malvagità.
E noi, per convenienza occidentale, politica e culturale, stiamo tollerando troppo. Buona lettura.
“Il 15 giugno ero a manifestare con altre 150.000 persone a L’Aia contro la guerra di Israele a Gaza. C’erano bambini affacciati alle finestre che agitavano bandiere palestinesi, e noi per strada restituivamo loro il saluto. Solo un paio di giorni prima avevo appreso degli attacchi israeliani contro l’Iran: stavo pranzando con alcuni uomini di lettere che ammiro in un casale della Toscana bagnato dal sole e, mentre tutti godevano delle eleganti sculture culinarie, io non smettevo di guardare il cellulare, alla ricerca compulsiva di notizie e messaggi dei miei cari in Iran, ché mi confermassero di essere ancora vivi. A Teheran ho ancora una zia malata di cancro al quarto stadio e una cugina che ha sempre vissuto con lei. Ho cercato notizie su Telegram e Whatsapp: solo foto fatte col cellulare, foto di fumo che esce dagli appartamenti, dai palazzi, foto di uomini e bambini coperti di sangue e cenere.
Quando parlavo con i miei commensali, lo facevo in maniera frenetica, mentre afferravo tramezzini o mangiavo un piatto di ciliegie, nel pieno di un attacco d’isteria. Mi sentivo come uno di quei villani di Poe, nascosto in una lussuosa mansione, mentre la mia gente brucia… E lo dicevo senza sosta. Durante il lungo pranzo ho chiesto due sigarette e me le sono fumate voracemente; erano 11 anni che non toccavo una sigaretta. Adesso vorrei trovarmi a casa mia, in Iowa, con mia moglie. Scrivo perché, durante queste ore vulcaniche e cruciali nelle quali si stanno prendendo decisioni politiche e si sta plasmando l’opinione della gente in merito a quanto sta succedendo, praticamente non ho ancora incontrato nessun punto di vista, nessuna prospettiva iraniana della questione sui mezzi di comunicazione, né tanto meno mi è capitato di leggere o sentire persone che qualifichino i bombardamenti israeliani per quello che sono: attacchi violenti di uno Stato nucleare genocida contro un popolo già abbastanza oppresso.
Che non ci siano equivoci sulle mie parole: il regime di Khamenei è una necroteocrazia1 travestita da Repubblica islamica e dedicata al dio del patriarcato, a cui hanno sacrificato le loro vite migliaia di iraniani, tra cui molti membri della mia famiglia; il regime di Donald Trump è un’altra necroteocrazia, travestita da Repubblica laica e dedicata al dio denaro, a cui con piacere e senza rimorso lo Stato democratico sacrificherebbe la mia vita e quella di altri che manda a morire; il regime di Netanyahu è pure una necroteocrazia, travestita da Repubblica occidentale e dedicata al dio del potere e del dominio, a cui ha sacrificato almeno 55.000 vite palestinesi negli ultimi 20 mesi.
Provo disprezzo per tutte e tre, e per ogni altra forma di necroteocrazia.
Ciononostante, adesso che scrivo, la gente sarà pronta a dire che difendo il regime iraniano solo perché non posso sopportare che uno Stato genocida inizi sotto i fumi del fanatismo più sfrenato il massacro di civili che somigliano ai miei zii, ai miei cugini. Ma io ricordo lucidamente il consenso manipolato del ex presidente George W. Bush al momento di iniziare le guerre in Iraq e in Afghanistan, quando promise che i soldati americani sarebbero stai ricevuti come “liberatori”. Di tutta quella retorica non è rimasto che un Afghanistan in cui, nel 2025 il 44,6% dei bambini sotto i 5 anni ha gravi problemi di crescita perché soffre di fame cronica. Di tutta quella manipolazione non è rimasto che un Iraq con le infrastrutture ancora in rovina, senza ospedali sufficienti per curare malattie croniche e persone denutrite, perché due generazioni di medici sono state uccise o obbligate ad abbandonare il Paese.
Vi chiedo: c’è stato qualche impero coloniale che abbia distrutto qualcosa per poi costruirlo meglio? Qualche bomba israeliana è riuscita a rendere più libero qualcuno?
Israele ha cominciato a bombardare l’Iran. E la distanza che separa il dolore mortale dei miei familiari terrorizzati dalla furia che provo io, lontano e al sicuro, rende ancora più intensa la necessità di fare qualcosa, di dire qualcosa, di utilizzare i pochi mezzi a mia disposizione, così ho preso un aereo e sono andato a L’Aia a manifestare. E adesso scrivo.
La retorica di Netanyahu e dei suoi complici ci vuole far credere che stanno bombardando l’Iran per il programma di arricchimento dell’uranio, e in solidarietà col popolo iraniano, oppresso dal regime di Khamenei. Se Netanyahu sta bombardando l’Iran è perché qui, da dove scrivo adesso, a L’Aia, la Corte Penale Internazionale ha emesso un ordine di arresto contro di lui, e perché milioni di persone nel mondo stanno manifestando quotidianamente contro il genocidio di Gaza. Netanyahu publica, invece, video di anni fa, privi di alcuna relazione con i giorni nostri, in cui gli iraniani plaudono agli attacchi israeliani; anche X di Musk ha etichettato quei video come falsi. Nel suo stesso Paese lo hanno accusato di frode e corruzione. Lui sa già come lo giudicheranno i morti. Adesso sta cercando di ottenere l’appoggio di quelli che ancora sono vivi. Non cadiamo nella trappola.
Durante l’elegante pranzo che si celebrava in Toscana quando Israele attaccava l’Iran io ero come assente, disperso. Ad un certo punto, qualcuno mi ha presentato a tutti come “poeta iraniano”, e la signora che stava seduta accanto a me, una sconosciuta, mi ha preso la mano in silenzio e mi ha sussurrato: “Io sono del Sudan. Come diceva mio padre, ‘almeno siamo tanti’”.
Non ho mai avuto la fortuna di imbattermi nella tromba di un angelo, e davvero nutro poca speranza nella speranza. O perlomeno, non confido nella speranza. La speranza crea persone esauste e ciniche, e non ne ho bisogno per cercare in maniera onorata quello che deve essere fatto ogni giorno. Ma credo in qualche tipo di potere superiore che si manifesta attraverso la grazia degli esseri umani (l’esistenza stessa dell’arte mi sembra una prova abbastanza inconfutabile di questo). “Almeno siamo tanti” è stato un regalo della fratellanza che mi hanno fatto una sconosciuta e suo padre.
In questi giorni strazianti di calcolato sconforto, il nostro dovere è resistere al consenso prefabbricato e alle chiamate a una quiescenza codarda. Analizzare con spirito critico il linguaggio, esigere responsabilità dai mezzi di comunicazione. Protestare. Il passato è tutto quello che non possiamo più cambiare, ma questo ancora non lo è, non è passato. Siamo ancora in tempo per allontanarci da un futuro che insiste nell’annichilire lo spirito umanitario e promuovere l’eliminazione degli esseri umani.
A proposito della materia oscura che tiene assieme l’universo, la poetessa e astrofisica Rebecca Elson scrive: “È come se tutto ciò che esiste fossero lucciole/ e da queste si potesse dedurre il prato”. Oggi ho visto molte lucciole; ho sfilato, cantato e pianto con 150.000 lucciole. Nella mia testa non smetto di sentire: almeno siamo tanti, almeno siamo tanti, almeno siamo tanti. Stiamo creando la luce che dimostra l’esistenza di un prato che ancora non possiamo vedere. È un luogo verde e brillante nel quale i bambini di tutto il mondo possono crescere. Chi lo desidera può unirsi a noi.
Per necroteocrazia si potrebbe intendere qualsiasi forma di potere che giustifica l’uccisione — propria o altrui — in nome di un’ideologia sacralizzata. Questo implica che sono necroteocrazie non solo i Regimi teocratici, come l’Iran, ma anche Stati secolari con fondamenti mitico-nazionali o religiosi, come Israele, o imperialismi moralizzati, come gli Stati Uniti. Non è la religione in sé (-teo- nella parola) il bersaglio, ma ogni forma di logica statale che sacralizza la morte come fondamento della sovranità. Necroteocrazia, quindi, è un’espressione che denuncia il connubio tra morte, potere e sacralizzazione ideologica.